Sicuramente una parola non può essere sufficiente per sintetizzare un ambiente variegato come quello del tifo, figurarsi in un Paese dalla storia e cultura così peculiare quale il Giappone; tuttavia ci può offrire almeno un appiglio, un punto di partenza per introdurre un prospettiva che apra il campo ad ulteriori approfondimenti. Glocalizzazione, ovvero adattare e combinare stimoli estranei a caratteri locali, rappresenta allora il primo passo per addentrarsi nella realtà del calcio nipponico, con uno sguardo che sia rivolto al campo ma soprattutto alle gradinate. Un termine coniato proprio sotto il Sol Levante negli anni '80, dochakuka, per indicare l'approccio adottato dalle multinazionali per adattare l'offerta alle specifiche caratteristiche dei nuovi mercati.
Nell'universo calcistico queste dinamiche sono state tradotte dai tifosi in una fusione tra gli impulsi ricevuti dall'estero, favoriti dal propagarsi dei media, e gli elementi locali, nella creazione di una cultura mista ma originale; un processo che negli ultimi trent'anni ha potuto beneficiare di una spinta non solo imposta dalle istituzioni, “dall'alto”, ma anche di un coinvolgimento sviluppatosi dal basso. Sintesi che ha permesso alle realtà locali, ovvero ai singoli gruppi di tifosi, di ricercare e modellare una propria identità distintiva.
L'ALBA DELLA J-LEAGUE
Alla fine degli anni Ottanta il calcio occidentale mostra già i prodromi della sua attuale condizione spettacolarizzata e finanziarizzata: la deregolamentazione dei media nazionali, la televisione su tutti, attrae nuovi investimenti commerciali che gonfiano le tasche di club e federazioni come mai prima; Italia '90 e Usa '94, l'allargamento della partecipazione alla Coppa dei Campioni ed il passaggio da First Divisioni a Premier League sanciscono la nuova dimensione del football globalizzato. In realtà l'avanguardia è il Milan marchiato Berlusconi-Fininvest, che traina la Serie A ed il calcio europeo verso un nuovo modello di business sull'asse politico-economica.