“La differenza fra noi e gli altri dopati dello sport è che tutti gli altri hanno scelto, noi no”.
- Uwe Tromer
Per una miope vulgata che riduce la questione biopolitica al semplicistico “my body my choice”, c’è un’evidenza storica pronta a dimostrare che sempre il potere costituisce un dispositivo fisico, uno strumento sul corpo dell’individuo. Se ad aprire il Novecento fu l’invenzione dei lager - ad opera dei Britannici, a danno dei Boeri –, l’intero Secolo Breve è stato caratterizzato dal controllo psicofisico diretto e dalla sciagurata commistione tra biologia e potere: così, con lo Staatsplanthema 14.25, la Germania dell’Est impresse nella storia la massima orwelliana per cui “lo sport è una guerra senza spari”.
Definito dall’ex atleta Ines Geipel “il più grande esperimento farmacologico della storia”, si trattò di un piano di stato che impose massicci dosaggi di doping a tutti gli sportivi, allo scopo di mostrare all’Occidente e al mondo intero i muscoli del socialismo reale.
Il piano costrinse alle “risorse di supporto” un numero di atleti compreso tra i dieci e i quindicimila: a fondamento del progetto vi era l’Oral-Turinabol, potentissimo steroide anabolizzante androgenico, efficace soprattutto sui fisici femminili e perciò somministrato ancor più massivamente alle atlete. Per un quarto di secolo, dunque, gli atleti della DDR divennero “ambasciatori in tuta blu” o, come preferisce definirli Ines Geipel, “un esercito di soldati civili”, secondo una chiamata alle armi che partiva già dalla tenera età, grazie ad un sistema di scouting – o forse meglio dire di rastrellamento – che coinvolgeva il 90% dei giovani e allevava i più promettenti in apposite scuole, le Kinder und Jugendsportschulen.