Sentimento Nazionale
O della disaffezione (antica) dei calciatori italiani alla maglia azzurra.
Non vengo da una di quelle famiglie dove il nonno passa la fede calcistica al figlio che a sua volta la tramanda al nipote. Quel poco che so sul calcio lo devo unicamente alla mia curiosità. Con una sola, rilevantissima, eccezione. La Nazionale.
Mio padre, che mai avrebbe barattato la visione di una finale di Champions rispetto a un qualsiasi film, imponeva la tassativa visione di ogni partita della Nazionale. Non importa che in palio ci fosse un incontro dei mondiali, di qualificazione o una semplice amichevole. Guai a non essere sintonizzati al momento dell’inno. Era una tradizione che prese da suo padre. Nonno, sfruttando l’entrata gratuita allora concessa ai militari, ammirò dal vivo l’epica Nazionale di Pozzo e Meazza. Una delle poche volte in cui non si pentì d’essersi arruolato nei sommergibilisti. Anche mia nonna materna non si perdeva una partita, ricordando con gioia quando la tv potè confutare quel che alla radio il buon Carosio spesso farciva di fantasia.
Vittorio Pozzo, il Metodo e le legioni romane
Sono le tre di pomeriggio di lunedì 4 novembre 1918. Tra i molti soldati ebbri di gioia per la fine della guerra vi è un trentaduenne tenente del 3° Reggimento Alpini. Si chiama Vittorio Pozzo, è un appassionato di sport e in gioventù ha studiato in Inghilterra, dove ha appreso i rudimenti del football e le primordiali tattiche di gioco. In guerra oltre . . .
Oggi un tale approccio al calcio è semplicemente impensabile, eppure ha plasmato per osmosi la mia visione calcistica: prima l’Italia, poi tutto il resto. La mia prima maglia e il mio primo pallone erano azzurri. La prima partita allo stadio, ovviamente, per la Nazionale. Italia-Slovenia, 21 agosto 2002. Durante l’ultima telecronaca di Pizzul la curva slava, tra scontri con la polizia e inneggiamenti alle foibe, espose striscioni con scritto “Trst je nas” (Trieste è nostra) e “Il IX Korpus è tornato”. In Curva Furlan i figli e i nipoti dei profughi istriani e dalmati risposero srotolando uno striscione enorme: “Italiano e me ne vanto”, accompagnandolo con cori (“Tito boia” il più gentile) scanditi a braccia tese in un nembo di fumogeni. Uscendo vidi un’auto targata Capodistria divelta dalle fiamme. L’Italia perse, stupita e offesa dal feroce agonismo degli sloveni, che interpretarono la partita come la finale di un mondiale.
Vieri e Totti avevano marcato visita, svelando al me decenne il proverbiale italico menefreghismo per ogni impegno della Nazionale considerato, a torto o a ragione, minore. A loro come ai colleghi in campo del pathos dei discendenti del dramma giuliano-dalmata non poteva importare di meno. Quattro anni dopo, a seguito del trionfo mondiale, Totti e Nesta, 30 anni ciascuno, lasciarono l’azzurro. Vero, mollare arrivati al massimo è sempre una strategia vincente, vero anche che entrambi avevano avuto i loro infortuni, ma come Scirea e Graziani non lasciarono dopo l’82, è altrettanto inimmaginabile pensare che Baggio o Baresi a quell’età avrebbero rinunciato a un altro paio di tornei internazionali.
Totti stesso non avrà problemi a riconoscere che per lui vale di più lo scudetto vinto con la Roma al Mondiale con l’Italia.
Tutto ciò per dire che il tema di questo articolo, la disaffezione dei giocatori italiani per la maglia della Nazionale, ha radici più remote di quanto vogliamo credere.