Ha una voce profonda, radiofonica, Stefano Del Signore. Nonostante mi riveli che quella che stiamo facendo è una delle pochissime interviste mai rilasciate, sembra quasi abituato a questa modalità di dialogo. In effetti, verso la fine, mi rivelerà che durante le partite della sua amata AS Roma, soprattutto allo Stadio Olimpico e specialmente durante l’intervallo, in virtù di quella riverenza data a chi se l’è guadagnata sugli spalti, qualche ragazzetto di tanto in tanto lo incalza chiedendogli aneddoti memorabili o un selfie da conservare gelosamente, oppure semplicemente ringraziandolo per le tante stagioni di fedele servizio. Eppure, lui, umilissimo, risponde sempre alla stessa maniera: «ce l’hai con me? Sul serio?». Non è falsa modestia, ma autentica riservatezza.
Quella che lui, bambino nel 1979, aveva presto imparato a conoscere in mezzo ai più grandi del Commando Ultrà Curva Sud. «Ricordo di aver fatto il tesserino, che pagavi 3000, 5000 lire. Stavo tutte le partite in piedi, vicino ad Antonio Bongi, a Elio, a Roberto “il Coca Cola” (recentemente scomparso, ndr)».
Gli chiedo se ci sia qualcosa, di quegli anni, che gli manca di più. Mi risponde che
«se entrare nel gruppo non era impossibile, per rimanerci dovevi cantare senza smettere mai. Io ricordo benissimo Roberto e Elio che andavano a muso duro verso quelli che non cantavano: ho visto volare certe stecche…», mi confida sorridendo. «Spesso tornavo a casa distrutto. Senza voce, sempre, a volte senza respirare per i fumogeni che inalavamo passivamente stando lì sotto. Alla fine della partita, volevo solo un letto dove dormire. Eppure, prima di addormentarmi, battevo nervosamente il dito sul cuscino, a ritmo coi cori della Sud, ancora presenti nella mia testa».