Chiariamo subito: questa indagine non riguarda gli ultras, né le curve (per quanto, per sineddoche, le curve siano spesso rappresentative dello stadio tutto). Questo approfondimento vuole invece concentrarsi sul luogo stadio, sulla sua funzione essenziale, psicologica e quasi filosofica, in senso lato culturale. Perché troppo spesso si tratta degli stadi come se fossero contenitori vuoti, impianti in cui gruppi di persone si trasferiscono per continuare ad essere quello che già sono: principalmente ultras o famiglie, questo il modo in cui una narrazione polarizzata da bianco o nero, buoni o cattivi, tende a presentare la questione.
Si parla dello stadio come porto franco in cui tutto è concesso, “ostaggio” delle curve e del tifo più caldo, oppure dello stadio come luogo di intrattenimento, un teatro ma più partecipato, in cui seguire la partita come fosse un’experience, uno spettacolo in vivissima definizione. Ciò che non viene invece mai tematizzato è il ruolo dello stadio come luogo trasformatore: luogo capace di cambiare, decentrare, portare al di fuori di sé e influenzare profondamente – per quei 90 e oltre minuti – un individuo e così masse di persone.
C’è una vasta letteratura, più o meno psicoanalitica, sui meccanismi apparentemente irrazionali delle folle. Apparentemente irrazionali perché filtrati con la lente delle società occidentali, progredite e ultra cerebrali, laddove l’uomo è identificato con la massima espressione e realizzazione della razionalità. A fondamento delle nostre società sta una caratterizzazione dell’essere umano, il quale si distinguerebbe dagli altri animali in quanto ζῷον λόγον ἔχον, l’animale che ha il logos, formula aristotelica che viene trasferita in latino come ‘animal rationale’. Così facendo però si confonde il logos, termine dalle inumerevoli sfumature, con la ratio.
Ma ciò che i Greci sapevano 2500 anni fa, e con un grado di indagine assai più sviluppato del nostro, è che l’humanitas, la particolarità umana, non può essere ridotta solo alla sua dimensione razionale.
Un presupposto che invece noi oggi assumiamo integralmente e ci porta ad avvertire come inferiori, non pienamente realizzati/emancipati, fermi a uno stadio precedente dell’esistenza tutti coloro che si comportano in modo apparentemente – secondo i nostri canoni – non razionale. Così nel mondo moderno occidentale solo delle esperienze collettive sono state in grado di schiudere, e di portare alla ribalta, altre dimensioni umane che sfuggono agli stretti binari dell’utile e del ‘ragionevole’. E come si è fatta un’indagine sulla psicologia delle masse, delle società, dei popoli, bisognerebbe svilupparne una simile sulla psicologia dei luoghi.
Ci ha pensato Marc Augé, grande antropologo francese scomparso un anno fa, passato alla storia per aver teorizzato i cosiddetti “non luoghi”, spazi neutri che non garantiscono una reale forma di comunicazione – e benché meno di trasformazione – tra le persone: le sale d’aspetto di stazioni e aeroporti, gli autogrill, i centri commerciali, gli ipermercati, le catene alberghiere. Non luoghi, oggi, rischiano di diventare pure gli stadi moderni: quelli del consumo sportivo, dell’esperienza esclusiva, dello spettacolo a cui assistere; le nuove Arene e i nuovi Stadium, tutti diversamente uguali e tutti omologati. L’opposto, tanto per intenderci, degli stadi tradizionali: iper luoghi – prendendo in prestito la definizione che Bruno Barba ha dato degli spogliatoi – per eccellenza.