Se volessimo scomporre l’esperienza della trasferta nelle sue parti essenziali, dedicarle un ciclo d’affreschi di questo genere, bisognerebbe partire dal principio, dall’organizzazione della giornata, dal viaggio d’andata.
Anche questa materia, infatti, come le fiabe e come i miti, ha i suoi momenti significativi da cui poi prende piede l’imprevedibile; i suoi ritmi e i suoi snodi che, opportunamente assemblati, di volta in volta danno vita ad una vicenda degna di essere raccontata, e che a distanza di anni si ricorda sempre fino al più assurdo dei dettagli.
Partiamo dunque dall’inizio.
Questa sorta di pellegrinaggio laico ha tutto della processione domenicale: ritualità, comunione d’intenti e, per quanto bislacca, fede. Chi parte sciarpa al collo, salvo rari casi, cova sempre la segreta speranza di portare a casa il premio in palio anche se di solito la squadra fuori dalle mura amiche s’arrocca sulle difensive, perde o tutt’al più mette in saccoccia un punto. E persino quando la gara è una sconfitta annunciata, difficilmente manca un manipolo di fedelissimi al seguito della propria maglia, convinti in cuor loro di aver già vinto per il solo fatto d’essere lì, magari con il proprio club ormai retrocesso o, perché no, da poco affidato a un curatore fallimentare.
Non esiste però una formula fissa: gli atti e le scene propri della trasferta – un’esperienza ibrida, come si vedrà – si rincorrono senza cesure nette, sfumando l’uno nell’altra come colori ancora freschi sulla parete. Si attraversano intere regioni e ci si lascia alle spalle il proprio stadio per inseguirlo altrove. Si affrontano viaggi estenuanti, spesso per restare via solo il tempo di una partita. E benché ci sia sempre chi ne approfitta per visitare una località che non ha mai visto, il fuorisede che fa visita al parente lontano così come il cultore delle trattorie tipiche, in genere chi si sobbarca tutti quei chilometri per una squadra appartiene ad una galassia di viaggiatori assai particolare.