Nella parabola della squadra di cricket delle Indie occidentali, e nella sua epoca d’oro tra gli anni Settanta e Ottanta, si condensa una delle più potenti metafore geopolitiche del Novecento post-coloniale: un’armata caraibica, multietnica e unita solo dal comune passato di schiavitù e subordinazione all’Impero britannico, che sale sul palcoscenico del mondo con il linguaggio del colonizzatore, il cricket, per dettarne le nuove regole. E, in due occasioni solenni — 1975 e 1979 — infligge all’Inghilterra la più feroce delle punizioni: la sconfitta sportiva che diventa simbolo di una lotta, sul campo da gioco, di fronte a milioni di sudditi sparsi per l’ex impero.
È fuoco a Babilonia, e a bruciare è l’arroganza coloniale.
Il cricket è stato la più estesa e potente manifestazione dell’influenza britannica nelle coscienze e nello stile di vita del suo (ex) sterminato impero coloniale. Molto più rilevante del football, capace di mobilitare le masse proletarie ma per questo inadatto all’ideale di élite che l’Inghilterra vittoriana coltivava, e più inclusivo del rugby, sport-ponte tra le colonie bianche, ma per lungo tempo appannaggio esclusivo dei coloni europei. Il rugby, quintessenza dell’educazione delle classi dirigenti britanniche, fu l’eco fisica e ideologica dell’impero nei territori d’oltremare come Sudafrica, Nuova Zelanda e Australia.
Ma fu il cricket, con i suoi ritmi lenti, ingegnosi, il suo spirito di squadra e i suoi eroismi solitari, come scrive Niall Ferguson, a trascendere le barriere razziali, a farsi autentico veicolo di imperializzazione culturale e, paradossalmente, di futura rivalsa. Fu il cricket, insomma, a forgiare l’identità dell’Impero. Un gioco istituzionalizzato nell’Ottocento, che a fine secolo già vedeva le “compagini coloniali” tener testa alla squadra madre. Una beffa perfetta: la grammatica sportiva dell’Impero si trasformava nella lingua della sua contestazione.