Asmara, 2025. Tra mille rumori e profumi, un bambino calcia un pallone. Un uomo, suo padre, lo chiama a sé. Per il ragazzino è tempo di andare, ignaro di ciò che quella serata gli riserverà. Percorre strade che mai aveva calcato prima d’ora, glielo si legge dallo sguardo colmo di curiosità. Mano nella mano col padre, si incammina verso uno stadio che sembra giunto da un’altra epoca, un gigante silenzioso intriso di cemento e storia. Passo dopo passo, gradino dopo gradino, arriva in cima alla tribuna. Poi, lo spettacolo.
Dinanzi a sé si apre uno scenario del tutto alieno: un campo verde scolorito dal sole, spalti esauriti dallo scorrere del tempo. Non sa che quel posto, un tempo, fu teatro di confronti tra italiani ed eritrei, tra colonizzatori e indigeni, tra due mondi tanto diversi accumunati da una sola grande passione. Quel manto erboso, lacerato dal sole, è eredità storica, integrazione tra popoli, memoria indelebile. Indelebile, proprio come la storia – positiva e negativa allo stesso tempo – che i nostri connazionali hanno scritto in quelle remote terre del Continente Nero. Ma facciamo un passo indietro.