Eravamo felici, ma non ce ne siamo accorti
L'epopea, sportiva e ancor prima umana, di Rafael Nadal.
Tutto è iniziato a Key Biscayne. Ve la ricordate Key Biscayne? Era il 2004, all’epoca il Master di Miami si chiamava Nasdaq-100 Open e si giocava in quella protusione della Florida, a poche miglia dalla Magic City, che rappresenta una sorta di avamposto delle Keys: un arcipelago a forma di uncino tratteggiato, seguendo la cui curva le isole si spingono nel Mar dei Caraibi fino a marcare il punto estremo meridionale degli Stati Uniti d’America. Avevo sedici anni e, dal televisore del soggiorno, arrivavano le immagini vivide delle palme sferzate dal vento oceanico che rendevano quello di Key Biscayne uno dei tornei più belli dell’anno.
Dall’altra parte della casa, il mio personalissimo centrale domestico era allestito in garage. Luci fioche, campo blu in compensato e acrilico, berretto indietro e interi pomeriggi fino a notte inoltrata dopo la scuola a giocare con il mio amico d’infanzia a ping pong. Le regole erano diverse da quelle usuali, le partite eterne, rigorosamente strutturate simulando i punteggi del tennis, perché noi sognavamo di essere lì, tra quelle palme.
La spola tra la rimessa e il divano era allora un esercizio rodato; quando giocava Federer, come quella sera, l’attrazione era maggiore, ma insomma la partita doveva essere una formalità, come molte altre dei mesi precedenti, vinte agevolmente dall’elvetico neo numero uno delle classifiche mondiali. Certo, si parlava molto bene di questo ragazzino spagnolo, ma all’epoca Mark Zuckerberg era solo uno sfigato del New England, non ancora uno sfigato miliardario della Silicon Valley, così le voci erano davvero solo tali e, anche con una buona dose di fiducia nei confronti di esperti affidabili, nessuno aveva realmente gli strumenti per verificare se si trattasse dell’ennesimo caso giornalistico o di un giocatore vero.
Quel Rafael Nadal che appariva sullo schermo quasi inadeguato rispetto al portamento elegante e perfetto di Roger, attirava più per indagine di forma che di sostanza.
Era vestito di rosso come un diavolo, quel ragazzino con il fuoco dentro e un’energia inarginabile fuori. Il pantalone a pinocchietto, dall’aspetto estremamente scomodo oltre che sgradevole, non si era mai visto nel tennis. La bandana era invece ampiamente sdoganata e un altro tennista maiorchino, Carlos Moya, aveva da qualche tempo introdotto la canotta. Ma c’era qualcosa in quell’estetica ribelle, quasi grezza, che mi attirava magneticamente e lo rendeva diverso da tutti. Stavo vedendo il futuro e non lo sapevo, ero di fronte al primo di 40 Fedal. Dopo quel secondo turno, il tennis non sarebbe stato più lo stesso.