Una delle ferite più gravi riportate dall’uomo contemporaneo è lo smarrimento – pressoché totale – dell’organo poetico. Non che l’uomo, oggi, non sia più in grado di fare poesia, ma non sa (e non può) più essere poeta. Il nostro sguardo è tecnicamente orientato, è iperspecifico, maniacale, minimale. Gli manca una visione d’insieme, alta, e anzi chi vede le cose nel suo insieme (dall’alto) è percepito come il clown citato da Kierkegaard in Aut Aut: un povero scemo che deve ancora fare i conti con la modernità – la quale intanto però, come il circo della fabula sopra citata, va in fiamme [1].
Il dramma che si nasconde dietro una visione tecnica e oggettivante del reale non è di carattere epistemologico ma esistenziale - la verità di un composto chimico non ci salva. L’uomo insomma non è solo verità delle cose – ammesso che la verità tutta tonda parmenidea esista davvero – ma anche e soprattutto finzione delle emozioni.
Noi non viviamo per la verità delle cose, ma per l’amore che le circonda, per l’immaginazione [2] che le cinge e la poesia che le riveste - dandogli un senso altrimenti inquietante. Ora, se c’è un luogo nel quale ancora oggi l’uomo riesce a dare un senso ulteriore alle cose che sono è senz’altro quello dello stadio. Il tifo è, nella sua essenza profonda, mistificazione della realtà – non certo però in senso dispregiativo.
Il caso che vogliamo studiare oggi è in questo senso emblematico. Se noi pensiamo il legame tra Lucio Battisti e la Lazio – in quanto club e comunità di tifosi – in un’ottica biecamente storiografica, chiedendoci quindi se è documentariamente fondato il tifo di Battisti per i colori biancocelesti, è inutile procedere oltre.